Quando due persone si trovano: chiacchierando con Francesco “Franco” Seminara
A parte i capelli e il nome Franco, i nostri mestieri, quello del cuoco e del giornalista radiotelevisivo, cosa hanno in comune e di opposto secondo te? In comune hanno la necessità di mettere le mani in pasta, di andare a fondo, portando alla luce quello che non si vede o non conviene vedere. Di opposto, l’esposizione mediatica. Oggi, il cuoco, quello che si è conquistato una reputazione, è molto, molto, più sotto tiro. Sotto tiro e in grado di dire qualcosa, di lasciare un segno.
Tu hai addirittura un nome doppio, Francesco Franco, come mai? “Franco” è nome d’arte o di battaglia. Mi è stato affibbiato da un direttore artistico che iniziò a mi chiamarmi così. Il mio è Francesco. Franco che suonava serioso per un ventenne, alla fine, si è fuso nel titolo della trasmissione che conduco da ventuno anni: Sarò Franco. Un appuntamento quotidiano, dalle 12 alle 14, così franco che non ha scalette prestabilite. L’altro, “SoulSalad”, ogni sabato e domenica, in onda su otto radio che trasmettono in Sicilia, Calabria e Malta, è l’unico programma radiofonico in Italia che racconta storie di cuochi e vignaioli.
La persona intervistata, più personaggio, che hai incontrato? Così, su due piedi, me ne vengono in mente due. Antonello Venditti che, mentre lo intervistavo, rispondeva, imitando male l’accento palermitano. Voleva essere divertente, ma non ci riusciva proprio e glielo dissi. L’altro è Tonino Carotone, forse l’ultimo degli chanssonier, colpito anni fa da successo, ma rimasto uguale a se stesso. Così se stesso da andare la sera a suonare per strada o nel metrò e a sfidare allegramente la vita con una certa dose di autolesionismo.
I miei maestri sono stati la strada, i libri di cucina, la rivista Grand Gourmet e Vincenzo Corallo della pasticceria Sweet a Vittoria, maestro anche di vita; i tuoi? Oltre a mio padre capace di insegnarmi a stare al mondo con uno sguardo, ai libri, ai miei amori, penso a un tassista milanese, a quello che mi disse appena arrivato in treno in una giornata piovosa e fredda. Andavo a firmare il contratto con Radio 105 che significava portarsi il sole appresso e lui, guardandomi dal retrovisore capì che non ero milanese; mi disse che si era sposato con una di Caltagirone e che dovevo stare attento, perché: «Milano ti mangia il cuore». È un avvertimento che mi è servito. Ogni siciliano si porta dentro la sofferenza dell’attraversamento, il dover andare altrove. Una solitudine speciale che curi con la nostalgia, un modo velato di sorridere.
La prima cosa che ti viene in mente rispetto a isola? Cuore, rifugio.
A che tipo di musica associ la Sicilia? La Sicilia è un jazz. Una jam session di jazz dove brillano la tecnica estrema e l’improvvisazione. Un modo di fare più che un genere musicale. Facciamo un jazz, vediamo come viene. Genialità della band, dell’ensemble.
E la mia cucina, invece? Direi funk. Nel senso di fisica, sincera, erotica, ma al tempo stesso la trovo elaborata, elegante, intellettuale. Una cucina che studia, cambia e, alla fine, offre qualcosa di antico e inedito come il Timballo del Gattopardo. Una potenza di ingredienti e una complessità ridotte ad armonia.
Lo chiedo a un catanese, ma perché la Sicilia dovrebbe aver bisogno di Catania? La Sicilia ha tutti e quattro gli elementi: terra, aria, acqua, fuoco. Catania è il fuoco, il magma endemico.
Ciccio Sultano
mente pratica